Paolo Raineri: “in un momento in cui il “come” cambia ogni giorno, solo chi pensa al “perché” può avere successo”.
Proseguiamo il nostro viaggio nel digitale e nell’innovazione, questa volta spostandoci in Lombardia: da sempre una delle regioni più “vive” dell’economia italiana nonché fulcro di aziende, industrie e sguardi orientati verso il futuro. E, da un comune poco lontano da Milano, arriva Paolo Raineri: Paolo Raineri da Pavia, per l’esattezza; detto così sembra il nome di un poeta antico, invece qui parliamo di un “poeta odierno del digitale”, perchè il suo percorso professionale lo ha portato a toccare diverse note di quest’ambito.
“Innovation addicted”, questa è la prima cosa che salta all’occhio, spulciando il tuo profilo LinkedIn: quando è iniziata questa “malattia” del digitale, per Paolo Raineri?
“Beh, inizio con una scomoda puntualizzazione: malattia per l’innovazione, non per il digitale. Il digitale mi ha da sempre affascinato ma non avevo mai davvero fatto caso ai processi e all’impatto della reale innovazione: la prima volta che mi sono trovato a sbattere contro in maniera consapevole a un ecosistema di persone e organizzazioni votate, per così dire, all’innovazione è stata quando ho avuto modo di studiare i modelli di business delle startup a San Francisco in Silicon Valley. Lì mi si è aperto un “vaso di pandora mentale” che non sono più riuscito a richiudere”.
Attualmente sei Chief Digital Officer da Yumi: quali sono le tue mansioni e come si sviluppa la tua giornata-tipo?
“Al momento non troverei altro modo di definirmi se non un “jolly”. Il Chief Digital Officer è, in realtà, secondo me un direttore d’orchestra: una persona che fa in modo che gli strumentisti si coordinino al meglio dal punto di vista dei processi e dei tool digitali. Per una realtà piccola come Yumi, però, è chiaro che il tema più caldo non è tanto il coordinamento e l’orchestrazione ma dare supporto all’execution – alle azioni che più hanno impatto -. L’argomento di cui ci occupiamo, inoltre, è uno dei più caldi del momento e questo fa sì che in azienda ci sia molto fermento per correre e riuscire ad accontentare tutte le richieste: noi forniamo una piattaforma che rende ogni lavoratore una parte attiva del cambiamento aziendale; permettiamo ai colleghi di scambiare e ricevere consigli e pareri con la propria community in un modo teso al miglioramento dell’individuo. Il nostro credo è che se chi lavora in un’organizzazione sta bene, cresce, ha fiducia verso i colleghi e si sente coinvolto, allora tutta l’organizzazione ne beneficia. Mai come ora, credo, è stato vero che questo è l’unico modo per ottenere resilienza e aumentare le performance”.
In passato hai anche avuto modo di “insegnare” e trasmettere ad altre persone queste tue competenze digitali? Quali sono state le soddisfazioni maggiori e invece quali gli ostacoli più grandi che hai trovato lungo questo percorso?
“Il più grande ostacolo è certamente la resistenza estrema che abbiamo in questo paese al cambiamento. Ho sempre trovato complesso riuscire a far muovere il primo passo verso l’accettazione del fatto che la comfort zone – la zona comoda – è la posizione più pericolosa in cui si possa mai rimanere in questa era di cambiamenti complessi ma velocissimi. Il più grande cruccio, non solo mio ma di chiunque come me abbia provato nel suo piccolo ad “avvisare” le persone, è stato vedere quanta distruzione economica abbia portato la pandemia di Covid-19, che si sarebbe potuta evitare se solo avessimo pensato per tempo ad allineare il nostro paese agli anni 2000 in termini di competenze e infrastrutture digitali. La mia più grande soddisfazione è ricevere ancora oggi messaggi su Linkedin di persone che ora hanno ruoli di rilievo in grandi aziende che mi contattano per avere pareri su loro prossime attività progettuali”.
Ti definisci anche “ex imprenditore”: in che modo?
“Ho avuto la fortuna, o la sfortuna (dipende dai punti di vista) di avviare la mia impresa con altri validi soci proprio negli anni in cui in Italia iniziava ad attecchire il seme del mondo startup & innovation e di portarla avanti per un decennio. Si chiamava MYagonism e permetteva ad ogni squadra di basket in tutto il mondo di avere un livello di gestione e analisi del talento sportivo pari all’NBA ma con costi ridottissimi; l’abbiamo portata in NCAA e persino al MIT di Boston. Il perché ex imprenditore è presto detto: è la realtà; dal momento in cui abbiamo chiuso tutto non ho più avviato attività imprenditoriali. Ma ancora oggi, da ormai 6 anni, ogni tre mesi scelgo tra quelle che mi contattano quotidianamente una startup italiana e la supporto come posso con consigli, network o attività operative: la mia preferita al momento è Ianum Inc. un’azienda che ha per le mani una miniera d’oro per chi si intende di identità digitali”.
Parliamo di digitalizzazione e di come il periodo della pandemia abbia accelerato determinati processi: la visione di Paolo Raineri.
“Come accennavo io lavoro proprio in un settore che ha vissuto una rivoluzione copernicana con la pandemia: il settore delle risorse umane, o meglio l’area People delle aziende.
Prima della pandemia faticavamo a trovare decisori aziendali che realmente si interessassero alla comunicazione interna, al benessere della propria comunità lavorativa. Faticavamo a far comprendere sul serio quanto le persone ed il loro valore fossero uno degli asset principali per qualunque impresa; dopo la pandemia abbiamo visto morire definitivamente Taylor e le sue concezioni: non siamo più noi a dover contattare gli HR directors o le persone del People management, riceviamo contatti diretti per progetti di cambiamento aziendale tesi proprio a comprendere le persone e a farle migliorare aumentandone l’engagement in azienda. Io credo che, come sento dire spesso, ci sarà per forza un nuovo “patto” tra i lavoratori e le imprese che vedrà i ruoli delle operations e del people management molto più interconnessi tra loro. La pandemia, volendo trovare qualcosa di buono in questo periodo, ha rimesso al centro il fattore umano, emotivo, delle relazioni e il loro valore immenso anche per il mondo del business. Rimanendo meramente sul tema di accelerazione della trasformazione digitale credo ci sia poco da dire: fino a ottobre 2020 dicevo che l’Italia non stava realmente cambiando approccio al digitale, si era solo obbligata a fare qualche mossa in emergenza ma poi tutto sarebbe più o meno tornato al consono vecchio approccio. Ora invece, dopo un anno pieno, inizio a vedere ragionamenti differenti: dal piccolo commerciante alla grande azienda hanno capito che il cambiamento è richiesto non solo per via dell’emergenza ma perché abilita a nuovi orizzonti. E, se ben gestito (ci sono parecchi lati oscuri da gestire) può portare benessere per tutti.
Avrei voluto vedere più movimento del mondo digitale anche nei confronti delle fasce deboli della società, che invece sono state lasciate quasi del tutto sole”.
Per affrontare un percorso come il tuo, sono maggiormente necessarie le competenze tecniche o conta l’attitudine?
“Mi sono dilungato molto nelle risposte precedenti, me ne scuso coi lettori e sarò telegrafico: senza dubbio l’attitudine. Il chiedersi il perché, il provare empatia, l’essere curiosi. Senza le soft skills le hard skillssono inutili in questo mondo di cambiamenti repentini: in un momento in cui il “come” cambia ogni giorno, solo chi pensa al “perché” può avere successo. La citazione non è mia, l’ho mutuata, ma non ricordo davvero da chi. Mi pento in anticipo per questo”.